Per la prima volta in Italia, due genitori hanno portato Facebook, Instagram e TikTok davanti a un tribunale, accusando le piattaforme di aver favorito la dipendenza digitale dei propri figli e di non aver rispettato le norme a tutela dei minori. È un segnale potente, che segue la scia delle azioni legali già avviate negli Stati Uniti, dove da mesi si discute di responsabilità algoritmica e salute mentale giovanile.
Il caso, depositato al Tribunale di Milano con l’assistenza dello studio Ambrosio & Commodo e il supporto del MOIGE (Movimento Italiano Genitori), denuncia pratiche che definiscono manipolative, feed infiniti, notifiche costanti, contenuti scelti per trattenere i ragazzi online il più a lungo possibile. Nella sostanza, la stessa accusa mossa oltreoceano, aver costruito un sistema che trasforma la vulnerabilità adolescenziale in profitto.
I legali chiedono controlli d’età effettivi, limitazioni alle funzioni persuasive e un maggiore rispetto dei limiti fissati dalla legge per l’uso dei social sotto i 14 anni. Le famiglie raccontano figli catturati da meccanismi ossessivi, notti passate davanti allo schermo, e un lento scivolamento in uno spazio che simula la socialità ma ne svuota il senso.
La prima udienza è fissata per febbraio 2026, ma l’eco della vicenda ha già attraversato l’Atlantico.
Negli Stati Uniti, dove da tempo si moltiplicano le class action contro Meta, il dibattito è ormai pubblico, algoritmi e interfacce vengono esaminati come si esaminerebbe una sostanza psicotropa. Alcuni stati hanno già introdotto leggi che obbligano le piattaforme a dichiarare i rischi legati alla permanenza online e a garantire sistemi di disconnessione programmata.
L’Italia, invece, arriva ora a un punto di svolta simbolico, per la prima volta la dipendenza digitale entra in tribunale non come patologia, ma come responsabilità industriale.
Nel frattempo, Meta ha replicato ricordando le proprie funzioni di sicurezza per adolescenti e i limiti d’età già previsti. TikTok non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali.
Ma al di là della difesa legale, il nodo resta etico, quanto è accettabile progettare sistemi che sfruttano l’attenzione come risorsa, soprattutto quando a farne le spese sono i più giovani?
L’algoritmo, dicono gli esperti, non distingue tra un adulto consapevole e un adolescente fragile. Non conosce la paura, né la soglia oltre la quale la curiosità diventa dipendenza.
È qui che la battaglia italiana diventa universale, perché non riguarda solo la tecnologia, ma l’educazione emotiva, la libertà di scelta e la trasparenza digitale.
Genitori che scelgono di denunciare aprono uno spazio nuovo, non solo giudiziario ma culturale, quello in cui il silenzio non è più un’opzione, e la tutela dei minori diventa un atto di responsabilità collettiva.