Quando l’arte è un prodotto della mente

Intervista a Raffaele Salvemini CEO di Vibre e inventore di BrainArt in questi giorni a Palermo

Quando l’arte è un prodotto della mente
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5 min di lettura
Raffaele Salvemini, classe 1990, sportivo e creativo, sfata lo stereotipo che vuole gli ingegneri bacchettoni e gli architetti artisti. Lui, pugliese di nascita, non rinuncia al nuoto e alterna la corsa mattutina all’aria aperta, al padel. E’anche un polistrumentista e gioca a scacchi sin da bambino. Dopo la laurea in Ingegneria Biomedica orienta la sua carriera verso il confine tra neuroscienze, arte e tecnologia, fondando la startup Vibre, specializzata in neurotecnologie. Appassionato di informatica, elettronica e musica, unisce sapientemente precisione e curiosità creativa e la sua attività rappresenta un esempio concreto di come scienza e arte possano dialogare, trasformando il pensiero umano in una nuova forma di linguaggio. Alla guida di Vibre, sviluppa progetti pionieristici come Neurophonic, che converte i segnali mentali in suoni e BrainArt, un sistema che consente di trasformare l’attività cerebrale in opere visive. 
Brain Art nasce nel 2017 nei laboratori di Cesena, dalla suggestione di usare la tecnologia per esprimere e comunicare l’interiorità umana traducendo l’attività elettrica del cervello in forme e colori che diventano un autoritratto dell’anima. Salvemini parla di Brain Art come di un “pennello evoluto” capace di restituire immagini “artistiche” a chi non saprebbe crearle manualmente, ma anche e ancor di più di offrire questa opportunità anche a chi, costretto su una carrozzina o a letto, non ha la capacità di muovere gli arti. Salvemini ci tiene a precisare che in questo contesto bisogna stare attenti a parlare di arte tout court e che preferisce restare nell’ambito di contesti più scientifici ed esperienziali. Ma BrainArt ha anche un importante risvolto in termini di sicurezza sul lavoro. Grazie a questa tecnologia è possibile individuare e prevenire pericolosi burnout derivanti dalla fatica da lavoro, un nemico silenzioso e insidioso che miete sempre più vittime. In proiezione di un orizzonte futuro Brain Art potrebbe anche essere la grande svolta per le aziende e i brand di prodotti, che entrando in relazione con il gradimento del potenziale acquirente, possono modulare la produzione. 
Come è nata l'idea di creare arte dall'attività elettrica prodotta dal cervello?
L’idea è nata davvero un po’ per caso. Dal 2017 lavoriamo con i segnali cerebrali applicando algoritmi finalizzati alla loro analisi in diversi settori. Dapprima nel campo sanitario, poi nel mondo dei lavori ad alto rischio. L’attività elettrica del cervello è ciò che ci fa muovere, prendere decisioni, interagire, pensare, ricordare, provare emozioni. Ma è qualcosa di invisibile ed è soprattutto unica per ogni persona in ogni istante. Non è come il ritmo cardiaco che segue una forma stereotipata, ma uno straordinario  mix di informazioni,  di ognuno di noi, che in qualche modo ci caratterizza e ci rende unici. La domanda, quindi, agli albori della nostra attività è nata spontaneamente: è possibile dare una forma e un colore a ciò che la nostra mente produce, a ciò che non vediamo? La risposta immediata è stata: sicuramente è possibile. La parte difficile era capire come rendere il tutto immersivo ed emozionante, rendere qualcosa che apparentemente può sembrare estremamente tecnico in qualcosa di esperienziale.
Il secolo scorso Walter Benjamin parlava di “arte al tempo della sua riproducibilità tecnica”, qui siamo ad un upgrade esponenziale del suo famoso saggio. Si può ancora considerare arte una creazione così fortemente mediata dalla macchina?
Mi piace citare le parole di Alessandro Carnevale con cui ho condiviso tempo fa un palco durante un evento. “L’arte è qualunque cosa che scegliamo di chiamare arte. È quello che riusciamo a comunicare laddove le parole non arrivano”. La “macchina” non è altro che un diverso pennello in questo caso, uno strumento che permette di trasformare un’emozione in qualcosa di visivo. Tutto ciò che si vede in un quadro BrainArt è condizionato dal cervello. I colori, le sfumature, le spirali che si creano quando le migliaia di linee vorticano su se stesse altro non sono che il modo in cui la nostra mente ha reagito durante un’esperienza, dove uno o più stimoli sensoriali hanno dato vita a percorsi mentali unici e irripetibili.
Quanto è vicina una tecnologia di questo tipo alla famosa è discussa macchina della verità?
Siamo molto lontani dalla macchina della verità. Gli strumenti che noi usiamo nel contesto di BrainArt sono elettroencefalografi, con una buona qualità del segnale, ma che operano su una piccola regione del nostro cervello. Questa già basterebbe come limitazione. Con un dispositivo che prende una porzione così piccola del nostro cervello non sarebbe mai possibile arrivare a individuare il concetto di “menzogna”. Ma anche applicando strumenti più complessi, come quelli usati per la diagnosi in medicina, siamo al cospetto di un’informazione troppo complessa da rilevare. La bugia non ha un’unica “firma neuronale”. Non esiste l’area cerebrale “della bugia”. Mentire richiede processi cognitivi diversi a seconda del contesto: inibire un ricordo, inventare un dettaglio, selezionare le parole, gestire l’ansia, tenere a mente la versione falsa. Ogni persona usa strategie diverse e il cervello non mostra pattern universali. A ciò si aggiunge che questo tipo di strumenti rileva onde generate da milioni di neuroni, non può discriminare microprocessori decisivi della menzogna. Per fare un esempio semplice: con questi strumenti siamo in grado di comprendere se una persona sta vivendo un ricordo, ma non perchè lo sta vivendo.
 
Che scenari futuri disegna un'applicazione di questo tipo?
BrainArt nasce per far vivere esperienze immersive e si evolve in diversi ambiti. Nell’ambito degli eventi sia aziendali, che fieristici e di presentazione prodotto, poter interagire con un prodotto, grazie a un’esperienza immersiva e creativa come questa, abbatte in qualche modo un distacco tra la persona e il brand, tra l’utente e il prodotto. Permette all’azienda di capire come il prodotto “viene vissuto” da chi lo utilizza in qualsiasi settore, un veicolo, una fragranza, un cibo o una bevanda.  E qui che sia apre un mondo nuovo, dove i brand possono comunicare con il proprio pubblico. BrainArt però può anche essere un salvavita. Oggi la tecnologia ci permette di accedere a settori molto specifici individuando con algoritmi dedicati stati di fatica mentale nei luoghi di lavoro ad alto rischio, causa di percentuali altissime di errori e incidenti, anche mortali. Con questi sistemi è possibile prevenirli e il più delle volte anche evitarli.