Trump e l’AI, la nuova dottrina del potere

L’intelligenza artificiale non è più soltanto una tecnologia. È diventata un linguaggio di potere. E quando questo linguaggio viene riscritto, cambia la grammatica stessa del mondo. È quello che sta accadendo negli Stati Uniti, dove Donald Trump, con una mossa tanto scenografica quanto strategica, ha firmato tre ordini esecutivi destinati a ridisegnare radicalmente il rapporto tra AI e governance federale.
Non si tratta solo di una dichiarazione d’intenti. È un atto politico concreto che segna l’ingresso definitivo dell’AI nella geopolitica mondiale, non come strumento di supporto, ma come leva ideologica e simbolo nazionale.
La posta in gioco? Non è l’innovazione, ma il controllo del significato.
Il primo ordine esecutivo vieta l’uso di modelli di intelligenza artificiale ritenuti “politicizzati” o “ideologicamente sbilanciati” all’interno delle agenzie governative. Dietro questa scelta, la volontà di epurare i modelli linguistici da ogni traccia di “wokeness”, come Trump stesso l’ha definita. Non solo si parla di neutralità, ma di una vera e propria purificazione algoritmica, dove l’AI deve rispecchiare una visione del mondo ben precisa, possibilmente patriottica, conservatrice, e “american first”.
Il secondo ordine mira a incentivare le esportazioni di tecnologie AI verso i partner alleati. Non a caso, si parla esplicitamente di “consolidare la leadership USA nel blocco occidentale”. Un’AI che diventa merce diplomatica, strumento di soft power, concessa solo a chi condivide valori e interessi geopolitici. Un’allusione chiara alla costruzione di un fronte tecnologico contrapposto alla Cina, ma anche a chi, in Europa, fatica ad allinearsi.
Il terzo decreto è il più controverso, smantella numerose regole ambientali che ostacolavano l’espansione delle infrastrutture digitali, come data center e impianti energetici ad alta intensità. La logica? Via la burocrazia, largo alla potenza. E poco importa se l’impronta ecologica dell’AI continuerà a crescere in modo incontrollato. In questa visione, l’efficienza viene prima della sostenibilità.
Ma il dettaglio più simbolico è altrove, Trump ha dichiarato che non ama la definizione “artificial intelligence”, trovandola fredda, tecnica, e poco ispirante.
Vorrebbe cambiarla in “genius”, parola che evoca brillantezza, individualismo, genio americano. Un cambio lessicale che suona quasi magico, come se si potesse reincantare la tecnologia e trasformarla in mito nazionale.
La domanda allora non è solo “che AI vogliamo”, ma “chi decide cosa deve essere l’AI”.
Con questa mossa, Trump ci dice chiaramente che l’intelligenza artificiale, nel prossimo futuro, sarà modellata non dalla scienza, ma dalla politica.
E forse, dalla propaganda.
Così, mentre il mondo osserva, in bilico tra entusiasmo e preoccupazione, si profila all’orizzonte una nuova era, quella in cui gli algoritmi non saranno più solo strumenti, ma manifesti ideologici.
E il loro codice sarà scritto non da ingegneri, ma da governi.