Spielberg, l’intelligenza artificiale non sa cosa vuol dire “essere lì”

Steven Spielberg, proprio lui, il regista che per primo ha raccontato al mondo una favola di metallo e nostalgia in AI – Intelligenza Artificiale, ha deciso oggi di tracciare una linea.
Non una barricata, non un veto assoluto, ma un confine tracciato nella sabbia, come ha detto lui stesso, sottolineando che può sempre rivederlo. Ma quel confine oggi c’è, l’intelligenza artificiale, per lui, non ha posto davanti alla telecamera.
Non è paura, non è rifiuto della tecnologia. È esperienza. È consapevolezza. È il risultato di una carriera iniziata negli anni sessanta, quando il giovane Spielberg si intrufolava di nascosto sui set degli Universal Studios, e che oggi trova casa simbolica nel nuovo teatro a lui intitolato. Un regista che ha visto la pellicola diventare digitale, il trucco diventare CGI, l’animazione diventare codice.
E che proprio per questo, con voce ferma ma non rigida, oggi dice: “Non voglio che l’IA prenda decisioni creative che io non possa prendere”.
Perché l’atto creativo, per lui, resta qualcosa di profondamente umano, incerto, intuitivo, fragile. E quindi insostituibile.
Spielberg non è contrario all’uso dell’intelligenza artificiale in fase di pianificazione, budgeting, logistica. Anzi, ne riconosce il potenziale in questi ambiti e anche in ambiti scientifici, quando dice che “può essere uno strumento valido, se usato in modo responsabile e morale”, ad esempio per trovare una cura contro il cancro.
Ma quando si tratta di narrazione, di personaggi, di espressione, non transige,“non voglio usarla davanti alla telecamera, non ancora.” perché davanti alla camera non c’è solo una forma, c’è una presenza.
Nel raccontare il processo creativo di Jurassic Park, Spielberg ricorda come la proposta di usare animazione digitale al posto dello stop-motion artigianale abbia cambiato per sempre il modo di fare cinema, rendendo alcune professioni praticamente obsolete. E proprio perché lo ha vissuto, non come spettatore ma da dentro, oggi si dichiara molto sensibile all’impatto che l’AI potrebbe avere sul lavoro umano.
“Questo ha in un certo senso reso certe carriere in qualche modo estinte”, confessa con una nota di rimpianto. È questo, più della tecnologia in sé, ciò che lo preoccupa, che si possa sostituire il talento umano senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno chiedersi se era davvero necessario.
E così, mentre l’industria dell’intrattenimento si interroga su attori digitali, doppiatori sintetici, sceneggiature scritte da modelli linguistici, Spielberg ricorda che il cinema, quello vero, è fatto anche di pause sbagliate, di respiri fuori tempo, di sguardi che non si programmano.
Di tutto ciò che rende reale e viva la presenza di chi sta lì, sotto i riflettori.
“L’IA può collaborare dietro le quinte, ma non può interpretare l’incertezza. Non può essere lì”.
Perché “essere lì” non è un’azione tecnica. È una condizione umana.