Un annuncio che sembra uscito dalla fantascienza ma che oggi si presenta come un progetto concreto.
Qifeng Zhang, Dottore di Ricerca (PhD) presso la Nanyang Technological University di Singapore e fondatore della start-up Kaiwa Technology di Guangzhou ha dichiarato di voler costruire entro il 2026 il primo robot umanoide capace di portare avanti una gravidanza. La notizia, diffusa durante la World Robot Conference di Pechino, ha immediatamente suscitato reazioni contrastanti, entusiasmo da una parte, allarme culturale ed etico dall’altra.
Secondo quanto annunciato, il robot sarà dotato di un utero artificiale, una struttura flessibile, riempita di liquido amniotico sintetico, connessa a un sistema che fornisce nutrienti e ossigeno in maniera costante. L’intero processo, dalla fecondazione al parto, sarebbe gestito da algoritmi di intelligenza artificiale in grado di monitorare ogni parametro vitale.
Il prezzo stimato, attorno ai 100.000 yuan (circa 12.000€), lo renderebbe più accessibile rispetto alle pratiche di maternità surrogata, aprendo scenari che vanno ben oltre il campo della ricerca.
Un progetto tanto radicale non nasce dal nulla. Già nel 2017 un gruppo di ricercatori americani aveva mantenuto in vita un agnello prematuro in un biobag, un sacco che simulava le condizioni uterine. Negli anni successivi, diversi laboratori hanno sviluppato sistemi in grado di supportare feti estremamente prematuri, gettando le basi dell’ectogenesi parziale.
La novità cinese non sta tanto nella scienza alla base, quanto nella forma, un robot con sembianze umane, programmato per incarnare la gravidanza, quasi fosse un surrogato del corpo femminile.
È qui che la notizia assume un peso che va oltre i dati tecnici. Se da un lato la tecnologia potrebbe offrire nuove possibilità a coppie infertili o donne con gravi complicazioni mediche, dall’altro emerge la percezione di una “misoginia tecnologica”, un tentativo di sostituire la maternità naturale con un dispositivo artificiale.
Il problema non è solo chi porta avanti una gravidanza, ma cosa significa nascere senza quel legame biologico, psicologico e simbolico con la madre. Una trasformazione che non riguarda soltanto la medicina, ma l’identità culturale della società.
Non va dimenticato che la Cina sta attraversando una delle più gravi crisi demografiche degli ultimi decenni. La popolazione in calo, i tassi di fertilità ai minimi storici e l’invecchiamento rapido della società spingono le autorità a considerare soluzioni fino a poco tempo fa impensabili.
In questo contesto, un robot gestante non è soltanto un esperimento scientifico, è un segnale politico. Un modo per mostrare che la tecnologia potrebbe diventare strumento di sopravvivenza nazionale, ma anche un’arma di controllo sociale in un futuro non troppo lontano.
Gli interrogativi restano enormi. Chi è il genitore legale di un bambino nato da un utero artificiale robotico? Quali diritti avrà alla nascita? E come saranno definiti i rapporti di filiazione?
Sul piano psicologico, poi, gli scienziati ricordano che la gravidanza non è solo un insieme di parametri biologici, è un dialogo costante tra madre e feto, fatto di impulsi, ormoni, micro-segnali che incidono sullo sviluppo cognitivo ed emotivo.
Replicare tutto questo in laboratorio è ancora lontano dalla realtà.
Il progetto della Kaiwa Technology rappresenta una soglia. Non è soltanto l’idea di costruire un robot che imiti la gestazione, ma la possibilità di slegare del tutto la nascita dal corpo umano. È un ribaltamento di prospettiva che porta la riproduzione fuori dall’intimità e la colloca nel dominio della tecnologia e della politica.
Oggi può sembrare un annuncio visionario.
Domani, però, potrebbe aprire le porte a cliniche di ectogenesi, a un mercato globale della nascita, a nuove forme di bioeconomia.