Se l’AI ci toglie la dignità, è l’AI a dover cambiare

“If AI takes away our dignity, something is wrong”. A pronunciare questa frase non è un attivista qualunque, ma una delle menti più lucide e rispettate nel campo dell’intelligenza artificiale, Fei‑Fei Li, docente di Computer Science a Stanford, ex direttrice del laboratorio AI di Google Cloud, co-fondatrice dell’Institute for Human-Centered AI. Non sta parlando di etica in modo generico, non sta lanciando allarmi sulla disoccupazione.
Sta puntando il dito su un punto preciso, la narrazione secondo cui l’AI è destinata a sostituire gli esseri umani sta minando un valore invisibile, ma centrale, la nostra dignità.
Nel corso di un’intervista per il Berggruen Institute, riportata dall’Economic Times il 4 luglio 2025, Fei‑Fei Li ha usato parole chiare, “Everyone needs to find their dignity and their value, and that should not be taken away by AI”, tradotto - ognuno ha diritto a sentirsi utile, a sapere che quello che fa ha un senso, un riconoscimento.
La vera minaccia dell’AI, dunque, non è nella tecnologia in sé, ma nel modo in cui viene raccontata e inserita nella società.
Quando si parla di intelligenza artificiale si usano sempre gli stessi verbi, sostituire, rimpiazzare, automatizzare, fare meglio. Ma il punto, per Fei‑Fei Li, è che ogni volta che descriviamo l’AI in questo modo, ci allontaniamo da un’idea fondamentale, l’essere umano non è solo funzione, è relazione, identità, riconoscimento. Se un software diventa più veloce, non significa che debba annullare ciò che facciamo. Se un algoritmo è più efficiente, non per questo è più umano.
E se in nome della produttività l’AI ci toglie la possibilità di esprimere valore, allora sì, c’è davvero qualcosa che non va.
La questione non è tecnica, ma profondamente culturale. Quando un medico viene sostituito da un sistema diagnostico automatico, non perde solo il posto, perde la possibilità di essere vicino a un paziente, di farsi carico di un dubbio, di accompagnare un processo di cura. Quando un insegnante si ritrova a competere con una piattaforma di tutoring AI, non è la didattica a rischio, ma la relazione educativa.
Quando un operaio vede la propria mansione replicata da un braccio meccanico, il problema non è solo il reddito, è il fatto che nessuno gli riconosce più un ruolo nella catena del senso.
Ecco perché la parola dignità è così potente. Non parla di efficienza, non parla di denaro, non parla nemmeno di occupazione. Parla del bisogno umano di essere riconosciuti nel proprio valore. Un bisogno che né l’AI né il mercato possono ignorare.
Secondo Fei‑Fei Li, la soluzione sta nella costruzione di un’AI centrata sull’uomo, non in modo retorico, ma attraverso una governance che metta al centro l’impatto sociale e relazionale della tecnologia. Serve un cambiamento di linguaggio, prima ancora che di politica. Non più AI che prende il posto, ma AI che accompagna, potenzia, sostiene.
Un’alleata, non una sostituta. Una tecnologia che ci aiuti a fare meglio ciò che ci rende umani, non che ci rubi il terreno sotto i piedi.
Il rischio, altrimenti, è quello di una società in cui tutto diventa più rapido, ma anche più vuoto. Dove le interazioni si spersonalizzano, i lavori diventano invisibili, e il concetto stesso di contributo umano perde valore. In una società così, l’AI avrà pure vinto la gara dell’efficienza, ma avrà perso quella della civiltà.
E allora, se c’è un principio da difendere con forza, è proprio quello espresso da Fei‑Fei Li, se l’intelligenza artificiale ci toglie la dignità, non è l’umanità ad avere un problema, è la tecnologia che ha preso una direzione sbagliata.