Tilly Norwood l’ombra sintetica che scuote Hollywood

Quando un volto perfetto è creato da codice, Tilly Norwood divide il cinema tra chi chiede protezione per il mestiere e chi esplora nuovi orizzonti narrativi.

Tilly Norwood/Instagram
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3 min di lettura

Hollywood non stava cercando una nuova stella, ma l’ha trovata lo stesso, solo che Tilly Norwood non è una persona, è un’attrice generata da intelligenza artificiale, lanciata da uno studio chiamato Xicoia, parte della casa di produzione Particle6.

La sua “apparizione” in un cortometraggio AI e il tentativo di farla rappresentare da agenzie del settore hanno scatenato una bufera nel mondo dello spettacolo.

La prima scintilla è scattata durante il Zurich Film Festival, dove Norwood è stata presentata al pubblico. Subito si è parlato di un progetto ambizioso, l’IA che entra nel casting, diventa “talento”, partecipa alla dinamica della produzione cinematografica. L'obiettivo di Xicoia, sarebbe far diventare Norwood la “prossima Scarlett Johansson” o “Natalie Portman”, tant'è che ha messo in piedi l'intero circo di casting, schermi social, un account Instagram, “screen test” diffusi.

Operazione riuscita.. sembrava. Se non fosse che SAG-AFTRA, il sindacato americano degli attori, ha reagito con forza, sganciando la sua bomba con la dichiarazione secondo cui Tilly Norwood non è un’attrice, ma un prodotto digitale costruito su lavori attoriali reali senza autorizzazione. «La creatività è e deve restare incentrata sull’umano» ha affermato infatti il sindacato, accusando Tilly di sfruttare "performance protette, senza compensi o riconoscimenti".

Attori del calibro di "Emily Blunt, Whoopi Goldberg e Natasha Lyonne" si sono fatte sentire prendendo subito posizioni forti. La Blunt ha parlato di «paura reale» nel vedere un volto generato da codice apparire come un possibile gemello delle star che già conosciamo, mentre la Goldberg ha messo in guardia contro la perdita della connessione emotiva tra pubblico e interpreti, la Lyonne è arrivata addirittuara a proporre boicottaggi verso  le agenzie che rappresentano talenti sintetici.

Insomma l’offerta di Norwood avrebbe un vantaggio scorretto: non invecchia, non chiede salario, non ha ego, non ha diritti morali, è plasmabile su misura, un interprete perfetto al servizio del regista, questo limbo tra “essere” e “prodotto” mette a rischio la dignità del mestiere.

Ma c'è invece chi sostiene Tilly Norwood affermando che non si tratta di un sostituto, ma uno strumento narrativo alternativo. Eline Van der Velden, fondatrice di Xicoia, ha difeso il progetto come un “pezzo d’arte” e non un attore da confrontare con gli esseri umani, sostenendo che  l’IA “non prende il posto dell’uomo, ma amplia le possibilità” e che i sistemi come Norwood dovrebbero essere considerati come loro categoria.

Qui si apre uno iato culturale, da un lato la difesa del lavoro creativo umano, dall’altro la spinta verso l’ibridazione macchina-uomo. Norwood è un banco di prova. Se passerà, le regole del casting, delle licenze, dei compensi, dell’etica degli algoritmi dovranno cambiare.

Tilly Norwood non è un incidente, è un sintomo dell’epoca, un’epoca in cui si ridefiniscono i confini dell’arte, dell’identità e del valore umano e in questo scontro, non si decide solo chi può “recitare” sullo schermo, ma quale declinazione dell’umano vuole sopravvivere al codice.

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