Parlare con chi non c’è più, l’illusione gentile dei Griefbot

23 Giugno 2025 - 10:30
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Parlare con chi non c’è più, l’illusione gentile dei Griefbot
Immagine generata con AI

Nel mondo dei griefbot, la linea tra memoria e tecnologia si fa sempre più sottile. Sono chatbot, spesso dotati di interfaccia vocale, capaci di replicare comportamenti, frasi, inflessioni e persino l’umorismo di persone reali.

Per farlo, i modelli vengono allenati su dati biografici, interviste, note vocali, video, testi. A volte i dati appartengono a persone ancora vive, che forniscono consapevolmente le proprie storie per essere conservate e trasformate in un avatar verbale da lasciare ai propri cari.

Altre volte, i dati vengono usati senza consenso, o peggio, contro la volontà dei familiari, come nel caso di JenniferAnn Crecente, una ragazza assassinata nel 2006, la cui “versione virtuale” è stata creata su Character AI, scatenando polemiche e dolore. L’industria dell’aldilà digitale vale oggi circa 1,5 miliardi di dollari, con aziende che offrono abbonamenti mensili per “parlare con chi non c’è più”, a volte con tariffe irrisorie, a volte a centinaia di dollari l’anno.

 Il confine tra conforto e violazione è labile. Alcune esperienze possono essere toccanti, come quella di chi ha dialogato con un genitore defunto e ne ha ritrovato parole, tono, affetto. Ma altre sono disturbanti, soprattutto quando mancano regole chiare e rispetto.

La scienza etica si interroga su quanto sia giusto delegare il lutto a un’intelligenza artificiale. Rielaborare la perdita è un processo delicato e individuale. Costruire copie digitali non equivale a superare il dolore, ma può diventare una scorciatoia per evitarlo, congelarlo, replicarlo.

E in tutto questo, resta il grande interrogativo, fino a dove possiamo – e dobbiamo – spingerci per continuare a dire addio?