L’insulto alla vita secondo Miyazaki, e quel Ghibli generato da AI che ci inquieta (e ci riguarda)

C’è un vento sottile che soffia tra le pieghe digitali del nostro presente: un vento che somiglia a quello che muove le foglie nei film dello Studio Ghibli.
Ma non profuma di terra bagnata e poesia: sa di glitch, server e promesse vuote. È quello che soffia quando una macchina cerca di imitare l’anima.
Negli ultimi mesi, milioni di utenti hanno trasformato selfie, paesaggi e scorci urbani in “opere d’arte” ispirate allo stile Ghibli grazie all’intelligenza artificiale. Un gioco visivo che, a prima vista, sembra innocuo. Anzi, incanta.
Ma a guardare bene, e a pensare meglio, c’è qualcosa che non torna.
Hayao Miyazaki, il fondatore di Studio Ghibli, quel mondo lo ha costruito a mano, fotogramma dopo fotogramma, come si costruisce un tempio o si scolpisce un altare. In un documentario del 2016, dopo aver visto un esperimento di animazione realizzato con una rete neurale, disse, “Questo è un insulto alla vita stessa.”
Il volto era quello di un uomo che ha visto troppo, e ha capito. Quell’IA mostrava una creatura deforme che si muoveva senza scopo.
I programmatori ridevano. Miyazaki no.
E non ride nemmeno Zelda Williams, figlia del compianto Robin Williams. Anche lei ha commentato con durezza questa “moda” digitale che imita le atmosfere di Ghibli. Ha ricordato, come spesso dimentichiamo, che l’intelligenza artificiale non è neutra. Consuma risorse. Ruba tempo.
E si nutre di immagini create da altri, senza chiedere permesso.
Allora ci si chiede, cosa stiamo davvero facendo quando chiediamo a una macchina di restituirci “una foresta magica nello stile Ghibli?".
Forse vogliamo solo essere rassicurati. Forse abbiamo bisogno di un’estetica riconoscibile, una carezza di pixel per colmare il vuoto. Ma c’è una differenza sottile e sostanziale tra evocare un immaginario e saccheggiarlo.
Miyazaki non ha mai disegnato per piacere agli algoritmi. I suoi mondi respirano perché sono pieni di imperfezione: una staccionata storta, una ciocca di capelli fuori posto, un silenzio che dura troppo. Nessuna IA lo capisce. Nessuna IA lo vive.
Sam Altman, CEO di OpenAI, ha definito l’IA “un beneficio netto per la società”. Lo dice mentre le sue tecnologie sfornano immagini perfette, senza errori, senza incertezze. Ma è proprio lì il problema, la perfezione senza esitazione è inquietante. E ci riguarda. Perché l’arte, quella vera, non nasce da un comando testuale. Nasce da un dubbio, da un’inquietudine, da una domanda che non ha ancora una risposta.
E allora no, quell’immagine “in stile Ghibli” generata da IA non è poesia.
È una cartolina senz’anima. Una copia di qualcosa che non si può copiare.
Forse dovremmo rivedere Totoro. In silenzio.
E tornare a chiederci se siamo ancora capaci di aspettare una foglia che cade, senza volerla generare in 4 secondi.